Unorthodox. La curiosità che ci salverà.

3 Mag 20 | Cose mie

“Ciò che è fuori dal comune rivela un’immagine ingrandita e più pregnante di ciò che è comune.”
James Hillman

Scoprii l’esistenza degli ebrei Haredim leggendo un articolo di Internazionale nel 2012 (purtroppo non riesco a risalirci, quindi il link che lascio è un altro); l’interesse e la curiosità che mi suscitò si sono rinnovate successivamente, in occasione di una visita ad un amico che vive a Stamford Hill, quartiere dove risiede la comunità ebrea ultraortodossa londinese, osservando i suoi componenti per strada con i tradizionali abiti e copricapi, in gruppi di non meno di 6 o 7 persone, di cui almeno tre quarti bambini, rigorosamente uniformati nel vestiario, nell’andatura, nella postura e anche nell’espressione, concentrata e seria.

In virtù di questi precedenti ho guardato con un’aspettattiva che non è stata delusa, Unorthodox, la miniserie televisiva americana, che racconta la storia un’ebrea ultraortodossa che, oppressa da uno stile di vita che non le rende possibile esprimere se stessa, abbandona marito e comunità e, da Williamsburg (Brooklyn), scappa a Berlino.

Unorthodox è una serie fatta bene, con una grande attenzione ai dettagli che fanno viaggiare lo spettatore tra due mondi così diversi per costumi, colori, musiche e architettura da far fatica a credere che siano entrambi contemporanei.
L’interpretazione intensa della protagonista tormenta e tende come una corda il racconto, diviso tra le prime settimane di Esty a Berlino e gli anni che l’hanno portata a maturare la sua ribellione.

Unorthodox parla del conflitto che può venirsi a creare tra autenticità e appartenenza e della diversità, sia quella tra ebrei ultraortodossi e il resto del mondo che quella che fa sentire Esty un’estranea nella sua comunità.

Anche se nemmeno per un momento appare desiderabile e giusta l’idea che la protagonista torni sui suoi passi, non è una strada in discesa quella che percorre lasciando tutto ciò che conosce per andare incontro al proprio desiderio di libertà e di conoscenza.

“Non mi conosci, nemmeno io conosco me stessa” dice Esty al marito venuto a riportarla a casa.
Ed è questo il viaggio che Esty intraprende. Sa che vuole scoprire se stessa, non può farne a meno; non sa cosa troverà e spesso ne ha paura. L’incontro con un mondo diverso è un tramite più che un fine in sé.

Penso allora che l’equilibrio tra tradizione e scoperta sia un argine sottile tra il percorrere strade note, fidandosi e affidandosi alla propria storia, e lo scoprirne di nuove.

Per quanto siamo indotti a credere che la verità stia nella seconda delle opzioni menzionate penso che lo sforzo da fare sia considerarle strade che non si escludono mutualmente.
La comunità chiusa descritta da Unorthodox è la straordinarietà che esaspera un messaggio per renderlo evidente e, se è impossibile non tifare per Esty che si ribella a regole che mortificano la sua persona e ignorano le sue fragilità, penso che vedere in questo contrasto una lotta tra bene e male sia fuorviante, così come lo è identificare in un sintomo il male a discapito del bene rappresentato dalla sua assenza.

La comunità chiusa di Satmar mi ha fatto pensare al funzionamento di alcune nevrosi ossessive in cui l’imperativo è ridurre al minimo l’intervento di variabili sconosciute ripetendo gestualità che incasellino la quotidianità in schemi noti e controllabili. Funzionamento che, se esasperato, rende schiavi di queste ritualità che hanno il potere di determinare malessere o benessere dell’individuo diventando le varabili indipendenti intorno alle quali la vita della persona si organizza.
Alla base di questo funzionamento c’è la paura di perdere il controllo e di perdere se stessi così come nell’esasperazione della tradizione della comunità raccontata in Unorthodox c’è il timore di smarrire la propria identità culturale e religiosa.
La durezza e la rigidità che ne derivano mortificano la bellezza dell’unicità dell’individuo e la sua libera espressione, ma il rischio percepito da un ammorbidimento è un male più grande.

Nel condannare il sistema, le difese si irrigidiscono, i muri si elevano, la distanza aumenta.

Il senso di raccontare mondi chiusi non è nel provocare indignazione, ma in quella curiosità che rende conoscibili funzionamenti propri e altrui.

Così come è la curiosità per sè stessa a far superare ad Esty la paura, così penso sia la curiosità per ciò che è diverso a rendere possibile una contaminazione che arricchisca e non disperda.
Nel mondo e dentro di noi.

 

*la foto è un lodevole scatto dell’amico londinese, Simone Antonello.