Buttare, tenere, forse donare.

Le due settimane appena concluse sono state un momento di cambiamento per la mia vita casalinga: ho ristrutturato il bagno.
Era un bagno che faceva il suo mestiere onestamente, eppure da un po’ di tempo a questa parte la voglia di nuovo aveva cominciato a farsi sentire e la scomodità percepita nell’usare gli spazi di sempre era cresciuta al punto da indurmi a prendere la grande decisione.
La voglia di cambiamento si palesa come un intermittente e fastidioso ronzio che fa crescere a poco a poco un senso di scomodità. La scomodità diventa mancanza, la mancanza desiderio e il desiderio, decisione.
Il progetto, dopo essersi palesato nei miei pensieri ha avuto una gestazione lunga, costellata di piccole e grandi scelte, intoppi, arresti e riprese fino a trasformarsi in un cantiere polveroso ingombro di attrezzi e materiali necessari, ma poco attraenti nella loro forma di schietta utilità senza gli orpelli dell’estetica: secchi, spatole, cemento, livelle, puntelli e altri di cui ignoro il nome.
Gli spazi di sempre, al di fuori del bagno, sono stati invasi da oggetti provenienti da altre stanze, coperti di nylon trasparente, impolverati e sporcati. La ricerca di ciò che serviva era un’impresa che necessitava una mappa mentale dello stato di cose pre-esistente e spesso la ricerca era comunque infruttuosa, insabbiata dal reperimento di oggetti non voluti e inutili che scoraggiavano dal procedere oltre.
Così, nella polvere e nel disordine, mi sono ritrovata a desiderare nulla più del necessario.
Con il passare dei giorni, mentre il bagno prendeva lentamente forma, l’urgenza che più di tutte sentivo era quella di rientrare in possesso dei miei spazi, per muovermi liberamente, ma anche per raggiungere uno stato di cose dove trovare quel necessario sarebbe stato facile.
Nell’oscillazione tra tendenza all’accumulo e all’essenzialità mi trovavo molto prossima all’estremità del continuum in cui si ambisce a possedere niente di più di ciò che serve.
Solo un paio di settimane prima mi ritrovavo all’estremità opposta quando, da una passeggiata al Balon*, mi portavo a casa 3 oggetti di comprovata inutilità, il cui possesso mi parve un’imperdibile occasione: una tombola geografica con le città italiane e dei vecchi libri di pesca (che non pratico) con suggestive illustrazioni in bianco e nero.
Le oscillazioni sono repentine e abbracciano una forbice molto ampia, consideravo.
E prendeva forma la domanda che ha dato origine a questa riflessione: cosa spinge ad accumulare, cosa a ridurre e fare spazio?
Ciò che spinge ad accumulare è l’eventualità di potersi trovare nella condizione di scegliere le cose da fare, indossare, fare, leggere, guardare o semplicemente di cui godere.
Ciò che muove all’essenzialità è la libertà di uno spazio popolato solo da ciò che serve, che può essere trovato facilmente, senza sprechi e che nella sua presenza delinea un’identità.
Mi sono ritrovata a pensare che l’essenzialità nasce dalla consapevolezza di ciò che si vuole e di ciò di cui si ha bisogno.
Poche cose, ma buone. Come le risposte che, quando sono concise possono essere brutali, ma descrivono uno stato di cose inequivocabile, netto, chiaro.
Scrivo questo pensando ad un’amica che alle domande via messaggio risponde in modo laconico, monosillabico. Nessun giro di parole, subordinate o emoticon. Solo parole singole o frasi da sussidiario: “soggetto, verbo e predicato”.
Le prime volte la trovavo scortese, pensavo di averla scocciata o disturbata in un momento inopportuno, ma con il tempo ho apprezzato quell’essenzialità che non si presta a equivoci e ho capito che il suo non era disinteresse, ma concisione.
Ridurre, arrivare all’essenziale per essere chiari e trovare quello che si cerca.
Eppure non è sempre facile. Nelle parole come negli oggetti di cui ci circondiamo c’è bisogno di ammorbidire l’atteraggio, costruire un contesto. Scegliere può essere difficile e la scelta quando si tratta di oggetti equivale a buttare. Confrontarsi con quella vertigine che ti pone davanti all’interrogativo: “Davvero non mi servirà più?”
E poi, solo perché non trovo più utile quella cosa non significa che quell’oggetto abbia esaurito la sua funzione. Oggi è così ma domani potrebbe cambiare. Non sono pronta a liberarmene, troviamo uno spazietto e mettiamo da parte: anatomia dell’accumulo.
L’idea che scardina il codice binario del butto o tengo è il dono.
Tra gli oggetti di cui ho deciso di liberarmi c’è il vecchio specchio del bagno; pensavo l’avrei messo in cantina, ma la vena dell’essenzialità mi spingeva a volermene liberare. Senza buttare.
Grazie ad un gruppo FB ho trovato nel giro di 5 minuti una persona interessata. E’ venuta a prenderselo il pomeriggio stesso.
Sono 5 mesi che non ho uno specchio – mi dice. Mi specchiavo nel forno.
E così, quello specchio che ha visto la mia faccia per 10 anni ora cambierà prospettiva e inaugurerà una stagione nuova per qualcun altro, mentre per me rappresentava una stagione conclusa.
Il movimento continua, prosegue al di là di me e mi mette in relazione con me stessa nel dialogo tra bisogni e appartenenze, spinta dalla responsabilità di far continuare il viaggio a ciò che per un po’ è stato utile e che ora non mi corrisponde più.
E allora, con quello specchio ho lasciato andare un po’ della scomodità che mi ha spinto al cambiamento, sollevata che possa continuare il suo ciclo anche senza di me ed io, senza di lui.
*Balon: storico mercato delle pulci di Torino.