Quei racconti che sono tutto un Ti Rendi Conto?!

23 Nov 20 | Meccanismi psicologici

Esiste una formula colloquiale che ho imparato ad usare con parsimonia e a diffidarne quando abbonda nei discorsi altrui.

E’ una formula che normalmente arriva al termine di un crescendo di indignazione; segue una retta che non ha nessuna intenzione di diventare cerchio e che si interrompe ad un certo punto con un “Ma ti rendi conto?!”

E’ piuttosto comune aspettarsi, da quella che suona come una grande premessa, una chiosa capace di dare una morale che colleghi ad una decisione o anche solo ad uno stato d’animo; un finale insomma che leghi l’inizio alla fine. Eppure nei racconti costruiti “Per far rendere conto di qualcosa a qualcuno” questo collegamento spesso manca perché il finale è rappresentato da chi ascolta.

Spiego meglio: il destinatario di quel surplus emotivo è chi, con un ascolto interessato, immagazzina indignazione, rabbia, impotenza del narratore e rimane con il cerino in mano a non sapere che farsene perché la persona che l’ha acceso, il cerino, e che dovrebbe decidere a cosa dare fuoco – metaforicamente si intende – l’ha spento nel momento in cui l’ha passato all’altro.

Il suo cerino si è spento e quello dell’interlocutore è rimasto acceso, senza che lui o lei sappia che farsene perché la persona che gli ha fatto dono (si fa per dire) di quella condivisione non aveva in mente di fare nulla tranne indignare anche lui e farlo sentire nello stesso modo.

Ed è grazie al fatto che ha trasferito all’altro la sua esasperazione che ha ritrovato un po’ di equilibrio.

Ho imparato a diffidare del Ti rendi conto perché raramente quel genere di sfogo cerca un confronto e tutte le soluzioni che si è naturalmente portati a cercare e a proporre per aiutare tornano facilmente al mittente.

Non è di soluzioni che va in cerca chi punta tutto sul Ti rendi conto, ma di ascolto e sollievo.
Ti dico che ho bisogno del tuo consiglio o di un aiuto a capire ma in realtà ho bisogno che ti senti anche tu come mi sento io per sentirmi meno solo a provare quello che provo.

Quando nel racconto sentiamo il bisogno di indignare, o preoccupare o allarmare gli altri c’è qualcosa che dentro di noi non ci sta. Un troppo pieno che ha bisogno di un contenimento.

Rendersi conto, letteralmente,  significa accorgersi, capire, prendere coscienza di qualcosa.

E allora quando qualcuno ci chiede se ci rendiamo conto ci sta in realtà chiedendo di portarci un po’ del suo peso e di aiutarlo a renderlo più pensabile.

Se pronuncio il ti rendi conto c’è davvero qualcosa di cui non mi rendo conto, ma non riguarda la persona o l’evento di cui sto parlando. Riguarda me. C’è qualcosa in quello che provo a cui non riesco a dare parole.

Quando in psicoterapia capita questo, tra paziente e terapeuta, quest’ultimo usa quello prova, senza ignorarlo o farsi ingaggiare in imprese impossibili e lo restituisce all’altro;  dice a voce alta quello che prova. Quello a cui si ambisce con questo scambio non è togliere il carico, ma renderlo sostenibile abbastanza a lungo da dargli nome e forma.

Tutto cambia quando si racconta lo stesso episodio con un Ti vorrei raccontare una cosa che mi ha fatto molto arrabbiare, indignare, sentire impotente, frustrato, interdetto…

Nominare i troppo pieni emotivi ha senso più di cercare tante soluzioni. Quelle vengono da sé se sappiamo stare abbastanza a lungo nel sentimento che proviamo senza neutralizzarlo facendolo provare ad altri.

Che, se a rendersi conto, togliamo il -si finale e mettiamo una e, diventa rendere conto.

E cambia tutto. Rendere conto di quello che proviamo è molto più complesso, ma infinitamente più trasformativo. Perché stare in contatto con i nostri sentimenti, anche quelli scomodi fa riflettere e, per prendere in prestito una frase dello scrittore Daniel Pennac, “A forza di riflettere, si finisce per arrivare a una conclusione. A forza di giungere a una conclusione, succede che si prende una decisione. E una volta presa la decisione, succede che si agisce per davvero.”