Quale foto nella cornice della fase due?

Il 10 marzo abbandonammo le nostre routine per chiuderci in casa, scappati come si scappa da un calamità naturale.
Ma, se nella fase del terremoto la vita si organizza abbastanza facilmente e istintivamente intorno ad un principio di sopravvivenza, i principi organizzatori della fase di convivenza con una terra che continua a tremare non sono così chiari.
Che se ne si attribuisca la colpa all’imprevedibilità del virus, all’incapacità del governo di farvi fronte o ad altre variabili, penso che la confusione che percepiamo non sia altro che lo specchio della scarsa chiarezza ontologicamente connaturata ad un momento di navigazione a vista.
Stiamo tentando di rimetterci in piedi non sapendo bene dove poggiarli, i piedi.
Non c’è la normalità che c’era prima, ma non ci sono nemmeno le condizioni per costruirne una nuova.
Si procede per tentativi ed errori: tra un lavoro che riparte ma è ancora smart, una socialità che torna a sembrare possibile purché organizzata intorno a parole – congiunto e distanziamento – mai usate prima; si esce, ma non si sa dove andare perché il fuori continua ad essere condizionato da logiche di necessità, per quanto estese ad una necessità di movimento e non più solo di approvvigionamento.
La sensazione di stand-by che si percepisce è legata anche all’impossibilità più o meno implicita di incontrare il nuovo, nuovi luoghi, nuovi amici, nuove frequentazioni, nuovi amori, nuovi affetti. L’aggiunta di ingredienti alla vita appare uno scenario incongruo rispetto alle minime concessioni alla normalità che la fase due gentilmente, ma rischiosamente, ammette. È un privilegio, nemmeno del tutto lecito, tornare a frequentare gli affetti pre-esistenti al terremoto, figuriamoci crearsene di nuovi.
E allora la fase due è anche la fase del grande boh, quella in cui ogni passo è un paese nuovo. Un paese fatto di scampoli di quotidianità da lockdown – l’incontro con i vicini, le videochiamate, il lavoro da casa, gli acquisti on line – e timidi, audaci incursioni nella novità.
Prima ci chiedevamo cosa ci sarebbe mancato, ora che l’abbiamo messo a fuoco, vi ci avviciniamo cauti, con il desiderio di reincontrarlo, la nostalgia di non ritrovarlo come l’avevamo lasciato e il timore di perderlo dopo poco se non, addirittura, con il senso di colpa di esporlo ed esporsi ad un rischio che, tutto pare, tranne che tramontato.
E allora non sono pochi i momenti in cui questa fase mi pare una fregatura la cui mancanza di naturalezza, costruisce il desiderio di una fase 3. Con qualche scetticismo in più anche nei confronti di quella.
E penso che stiamo prendendo coscienza che la normalità che conoscevamo comincia a sfumare nel ricordo.
Pochi giorni fa con i miei vicini ci sforzavamo di ricordare come fosse disposto il supermercato di quartiere che è stato ristrutturato un paio di anni fa. Grazie a frammenti di memoria fotografica di tutti e tre l’abbiamo faticosamente ricostruito, ma l’effetto era comunque quello di un puzzle di cui si sono persi un bel po’ di pezzi.
Pur trovandoci concordi sulla sostanziale inutilità del ricordo anzi, proprio a partire da questa constatazione, ci stupivamo dell’amarezza di renderci conto di non aver trattenuto memoria di un luogo frequentato centinaia di volte, così abituale da percorrerne le corsie pensando ad altro, stando al telefono spesso, ma riempiendo comunque il carrello grazie ad una mappa interiorizzata di scaffali, banchi frigo e reparti.
E allora mi chiedo se quella normalità che conoscevamo non andrà persa come il ricordo di quel supermercato e la nostalgia che sentiamo non sia quella per ciò che oggi constatiamo non esserci più.
E penso che in questo viaggio nello spazio/tempo che non avevamo previsto, le fasi tre, quattro, cinque e cinquemila dovrebbero partire da questa nostalgia che si fa necessità.
Non sappiamo bene dove mettere i passi ma, al netto della paura, non c’è più un modello a cui conformarsi e allora l’esercizio è trattenere ciò che ci piaciuto, andare grati verso ciò che ci è mancato e inventare tutto il resto.