L’irresistibile fascino del MA

Non sono razzista ma… Non mi piace fare la vittima eppure… Non vorrei farmi gli affari tuoi, ma sei sicura che…
L’elenco potrebbe continuare a lungo e la costante rimarrebbe, al termine di ogni affermazione iniziale un ma o un però. L’avverbio avversativo che inaugura il reale oggetto dell’affermazione e che, normalmente, ha nell’incipit sia un’attenuante che una spinta a dire tutto ciò che viene dopo. Che gli immigrati sono troppi e maleducati, che la colpa non è nostra, che ci si sta intromettendo in questioni di altri, e così via.
Se la pensiamo in un certo modo perché ci viene difficile dirlo e basta?
Come se cercassimo in quella minuscola parola un’assoluzione da presunti pregiudizi e l’essenza di ciò che viene detto fosse proprio in quell’abstract iniziale che titola il resto del discorso.
Le ragioni psicologiche per cui questo modo di comunicare così frequente, tanto da essere diventato quasi una macchietta, sono molteplici e alcune radicate in profondità.
Ad una prima analisi è facile ravvedere nella posizione di chi si esprime in questo modo una volontà a mantenere una certa immagine di sé per cui, prima di lasciarsi andare ad affermazioni che espongono al giudizio, si sente il bisogno del paracadute dell’autoconsapevolezza che possa ammorbidire, almeno idealmente, l’atterraggio. La tendenza è cercare di mitigare e controllare l’effetto che le parole possono avere sull’interlocutore con una premessa che nega quello che viene detto successivamente o che, per lo meno, lo confonde un bel po’.
Ma se si trattasse solo di questo, allora perché non tacere del tutto? Sarebbe ovviamente una strategia ancor più efficace. Eppure non renderebbe conto di un altro bisogno emotivo che ci guida: comunicare, condividere, sentirci accettati.
Abbiamo bisogno di sentirci capiti, accolti e confermati nel nostro punto di vista eppure, al tempo stesso, ne siamo spaventati. Quella frase iniziale ci àncora illusoriamente ad un’immagine di noi da cui poi possiamo prendere le distanze per tirar fuori ciò che ci anima e muove: una paura, un’offesa, una preoccupazione.
Come una specie di compromesso tra emotività e razionalità.
Per quanto illusorio, dal momento che le vere qualità non sono quelle che si proclamano ma quelle che si agiscono, quell’incipit rende conto della complessità di una situazione di cui siamo consapevoli, ma che non abbiamo, in quel momento, la capacità di considerare nella sua interezza.
Andando più in profondità, prima di essere una formula espressiva e comunicativa è un atteggiamento umano che prova a tenere insieme una faticosa complessità.
Per quanto consideri vero questo, non riesco a non sentire quest’altro: ci sono entrambe le posizioni e faccio fatica a scegliere.
Faccio fatica a non essere razzista anche se penso sarebbe giusto non esserlo.
So che fare la vittima non mi porterà da nessuna parte, ma sento che quello che sta capitando non dipende da me e questo mi fa arrabbiare.
A ben pensare, quel MA, non risolve, non scagiona, non semplifica: prova a tenere insieme, come il suo nome proprio suggerisce, congiunzione avversativa. Quanto più lo si conosce tanto più può cessare di creare opposizione e chiusura e trasformarsi in un’umana, imperfetta e per questo spesso insoddisfacente, congiunzione.
Sono questo E sono anche quest’altro.
Mi accetti anche così?