L’anoressia mentale

20 Mag 20 | Meccanismi psicologici, Psicoterapia

L’anoressia mentale di Mara Selvini Palazzoli è un testo pubblicato nel 1963 ed è il frutto del lavoro clinico  con 26 pazienti da lei seguite nell’arco di 10 anni dal 1950 fino alla stesura del libro.

Ho voluto riprendere un testo così datato perché penso che talvolta per comprendere un fenomeno occorre risalire alle origini della sua trattazione più che all’ultima pubblicazione in materia. Il testo in questione rappresenta un punto di vista pionieristico su di una malattia che ha avuto, a partire da quegli anni, una diffusione crescente.

Ho scoperto, senza stupirmene troppo, che le deduzioni della Selvini su eziogenesi, sviluppo e trattamento sono attuali ancora oggi.

Parliamo di anni in cui la diagnosi di anoressia nei casi di dimagramento estremo non era affatto scontata perché si tendeva a confonderla con patologie organiche o con un sintomo secondario di altri disturbi mentali (depressione e schizofrenia, soprattutto).

Nell’excursus storico con cui introduce la trattazione dell’argomento distingue 4 fasi.

  1. Il primo contributo sull’argomento è fatto risalire a un medico inglese del 1600, Richard Morton che descrisse sotto il nome di “atrofia o consunzione nervosa” una malattia i cui connotati essenziali erano: amenorrea, disturbo dell’appetito, stitichezza, estremo dimagrimento e ipotizzò che alla base di questo disturbo dovessero esserci sofferenze morali o preoccupazioni.
  2. Il secondo periodo, il 1800, è quello in cui l’anoressia emerge come entità clinica vera e propria ad opera di un professore di Clinica Medica all’Università di Parigi, Lasegue, e di un clinico londinese, William Whitney Gull. Erano entrambi concordi nell’attribuire a cause psichiche tale disturbo, preannunciando l’influenza che può avere il medico sul paziente nel determinarne la guarigione.
  3. Il terzo periodo fu quello del “passo indietro” perché la si confuse invece con una patologia organica dovuta ad una insufficienza funzionale dell’ipofisi, il cosiddetto Morbo di Simmons.
  4. Si deve giungere al 1900 per tornare a considerare l’anoressia un disturbo essenzialmente psichico che pone l’interrogativo “Perché non mangiano?”. Alcuni noti tentativi di rispondere a questa domanda sono di Janet, con il caso di Nadia e di Biswanger, con il caso di Ellen West.

Una precisazione interessante è quella sul termine stesso di ANORESSIA, che la Selvini considera fuorviante in quanto etimologicamente significa Assenza di Brama (dal greco), cosa non vera in quanto l’anoressia non è un disturbo dell’appetito inteso come sua assenza, ma un deliberata volontà di dimagrimento.

Le ragazze che presentano questo distrubo sono interessate ed esigenti per il pochissimo che mangiano; hanno una memoria prodigiosa in fatto di alimenti e la loro vita onirica è ricca di sogni riferiti al cibo quindi non è corretto attribuire loro disinteresse e mancanza di desiderio nei suoi confronti.

Le malate anoressiche descritte dalla Selvini si presentano educate, fredde, scostanti e controllate. Ostinate, poco comunicative e collaborative. La terapia con loro è difficile perché la guarigione equivale al “diventare grasse” ed è una eventualità a cui guardano con terrore.
Raramente hanno esperienze amorose/affettive né pare desiderino averle. Sono iper attive nello studio e nel lavoro.

I segni che la Selvini considera distintivi della malattia, riprendenoli da una studiosa che ne scrisse prima di lei (Hilde Bruch) sono il disturbo dell’immagine corporea, il non riconoscere gli stimoli che ne provengono ed il terrore di perdere il controllo sul proprio appetito, vissuto come pericoloso istinto che potrebbe prendere il sopravvento.
In base alla sua sua osservazione clinica, la Selvini considera importante soprattutto questa caratteristica e osservò, in diversi casi, che anche quando le malate arrivavano a rendersi conto della loro preoccupante magrezza vi si aggrappavano considerandola l’indispensabile giusta distanza che le separava dall’obesità.

Le considerazioni che la Selvini fece rispetto alla maggiore diffusione della patologia rispetto agli anni precedenti fu un legame con la crescente ambiguità del ruolo della donna rispetto ad un passato, quello legato alle tradizioni delle culture agricolo-patriarcali, in cui era essenzialmente passivo, ad un ruolo più complesso e polivalente del mondo contemporaneo.

“Fanciulle che potevano diventare catatoniche o depresse diventano anoressiche, come tentativo di un debole Io di rifiutare un ruolo passivo”

 

Questa descrizione tratteggia la realtà dell’anoressia come tentativo di ribellione e quindi come tentativo di affermare se stesse, in estrema contraddizione con il sintomo che le vede sempre più magre, quasi invisibili.

L’ambiente famigliare che la Selvini descrive come tipico è un contesto apparentemente ideale ma dove covano in realtà tensioni sotterranee, tendenza a malumore e irritabilità.

Normalmente le madri sono le figure dominanti, severe custodi del focolare domestico che sotto sotto non hanno accettato il ruolo di mogli, e i padri figure assenti.

La parte più interessante del testo è quello in cui la Selvini descrive il possibile sviluppo psicodinamico della anoressia mentale, ossia da dove prende forma.
La Selvini si rifiuta, come abbiamo detto, di considerarla come uno dei sintomi di una malattia nervosa. Le riconosce una specificità evidente in alcuni elementi comuni:

Il cibo non rappresenta un nemico in sé. E’ l’atto del cibarsi che è un pericoloso e angoscioso e rappresenta una resa e una colpa.

Perché accade questo?
Secondo la Selvini ha a che fare con una scarsa sintonia con la madre nelle prime fasi di vita. Rifacendosi a Sullivan, secondo cui nella soddisfazione primaria di fame e sete si trova un contatto empatico essenziale attraverso cui il bambino si sente accettato e sicuro, un sentimento ambivalente della madre nei confronti della nutrizione priva il bambino di sentimenti di comunione e accettazione.
Alla base del suo non voler soddisfare il bisogno di nutrizione ci sarebbe, nella paziente anoressica, un fraintendimento antico che lo fa coincidere con il sentirsi non protetta e poco incisiva nel proprio mondo di affetti.
Un po’ come dire “Se mi soddisfo oralmente non posso sentirmi sicura né avere valore”.
Oltre a questi elementi (fattori culturali, rapporto poco empatico con la madre nelle primissime fasi di vita) la Selvini osserva in queste ragazze un forte paura e senso di impotenza nei confronti della vita che porta a voler esercitare il potere nel rapporto con il proprio corpo.
Il dimagrimento è come fosse un allenamento a vincere e l’emaciazione l’unica autonomia possibile.

L’anoressica lotta quindi contro il proprio corpo e si gratifica perché mantiene un’illusione di controllo riducendo il senso di impotenza.
Un effetto secondario di tutto ciò è la drastica riduzione dei rapporti interpersonali che vengono vissuti con timore e senso di inadeguatezza.
Ogni loro sforzo si concentra sull’obiettivo del controllo della nutrizione, arrivando paradossalmente a ridurre ansia e tensione perché viene eliminato dal campo di attenzione ogni altro aspetto della vita.

Secondo la Selvini, nella terapia con queste pazienti, è importante rimanere nel loro mondo senza avere fretta di interpretare. Alcune sedute potrebbero apparire come semplici conversazioni amichevoli dove è il terapeuta a raccontarsi più che non il paziente. Se gli sforzi si concentrano sul tentativo di intervenire sul sintomo e convincerle a cibarsi si ottiene ben poco se non una maggior chiusura.
Occorre entrare in punta di piedi, incuriosirsi con discrezione, raccontarsi, arrivando ad essere ammessi e non arginati e neutralizzati come minacce.

Per poi accompagnare gradualmente al riconoscimento delle proprie sensazioni corporee e alla consapevolezza, attraverso il rapporto terapeutico, del diritto di avere proprie opinioni ed esigenze che possono essere espresse e non agite sul proprio corpo.

 

Mara Selvini Palazzoli, L’Anoressia Mentale. Feltrinelli. Milano. 1963