Il fascino pericoloso della polemica

Di recente un’amico mi ha raccontato un episodio della sua vita in cui si è trovato a vivere una situazione che non l’ha fatto stare bene. La causa risaliva a comportamenti altrui che, pur non avendo intenzione di ferirlo, lo mettevano a disagio.
Alla mia domanda “E tu cosa hai fatto?”
Mi ha risposto: “Niente, non volevo essere polemico.”
Questa risposta mi ha fatto riflettere.
Dire che qualcosa non ci va bene, significa essere polemici?
Non avevo mai visto la questione in questo modo e tra quei due concetti che il mio amico faceva coincidere mi sembrava scorressero fiumi di sfumature e modi di essere.
La polemica non è un marchio di simpatia né una caratteristica che ci si porta volentieri addosso.
Io stessa mi sono ritrovata accusata di esserlo ed è stato un vestito che ho voluto togliermi in fretta di dosso perché sapevo che non donava né a me né alla conversazione che prendeva in tal modo una piega molto poco creativa e costruttiva.
Eppure talvolta è difficile non esternare ciò ci fa arrabbiare e che, spesso e volentieri, è oggetto di analisi così accurate da farci disporre di decine di argomenti così convincenti e ben circostanziati che pare uno spreco tenerseli per sé.
Sappiamo che parlare di quel partito politico, di quella scelta aziendale o di quell’amico che ci esaspera non ci farà guadagnare nessun premio della retorica né, soprattutto, cambiare le cose. Eppure la carica di risentimento e frustrazione ha, per sua natura, bisogno di sfogare la sua energia; come una molla caricata da intellettualismi e razionalizzazioni.
Costa fatica disperdere quella carica annacquandola in una soluzione di saggio silenzio. Come la rana che traghetta lo scorpione dall’altro lato del torrente viene punta, pur essendosi fatta giurare che non sarebbe avvenuto, perché la natura dello scorpione è pungere, così la natura della polemica è essere condivisa e creare proseliti scendendo nell’agone della più feroce discussione. Solo così si ha l’illusoria sensazione di potersi dare pace: andando in guerra. Una guerra di idee che possa dare sfogo alle turbolenze interiori e ottenere consenso.
D’altro canto la parola polemico deriva dal greco bellicoso, guerriero.
Il che spiega perché i polemici non siano i re e regine delle feste. Se dotati di una molla troppo carica, possono trasformare il tempo dello stare insieme in un campo di battaglia intellettuale che, quando non sfocia in scontro, vira in noia.
Questa, per sommi capi, la mia idea di polemica. Da cui, per tornare alla constatazione dell’amico da cui la riflessione è partita, associare l’esternazione di un dissenso ad un fare bellicoso mi è sembrata una semplificazione che snaturava il concetto.
Dire cosa non ci fa stare bene è il contrario dell’essere polemico, anche se ne ha in comune la possibilità del conflitto.
Nel caso della polemica è un conflitto che viene agito in modo sotterraneo, nell’altro lo si nomina prendendolo di petto.
In questo secondo caso non si ha il totale controllo perché ciò che consegue all’esternazione del nostro sentire non dipende più solo da noi, ma da quello che accade tra noi e l’altro. Potrebbe dispiacersi e venirci incontro, ma anche non capire, arrabbiarsi, allontanarsi; magari darci dei polemici per minimizzare e bollare la nostra esternazione come problematica, chiamandosi fuori e ricorrendo alla brutta abitudine di guardare il dito e non la luna.
Spesso ciò che si teme del conflitto è proprio questo: turbare un equilibrio che, per quanto scomodo, è conosciuto, mentre quello che si verrà a creare provando a cambiare le cose è tutto da scoprire e da costruire.
Insomma quella che il mio amico considerava equivalenza, a me pare una vera e propria contrapposizione.
Da una parte sta la polemica con tutta la sua carica aggressiva passiva e dall’altra, il dire le cose come stanno provando attivamente a fare del proprio meglio per cambiarle.
Vero è che le situazioni che alimentano la polemica spesso non sono risolvibili con un confronto diretto perché riguardano questioni più generali, come la politica, la gestione di una pandemia, la formazione della nazionale ai mondiali, la direzione generale della multinazionale per cui si lavora.
Eppure tanto più virulento è il nostro fare polemico verso queste situazioni, quanto più la nostra carica tradisce la frustrazione di non riuscire ad incidere nelle questioni che ci riguardano più da vicino. Occupandoci delle nostre piccole battaglie, mettiamo a rischio un po’ di comfort zone per trasformare la polemica in prese di posizione, tipo “questa cosa non mi piace” o “io non la penso così”.
Quelle meravigliose e pacifiche affermazioni che sono l’obiettivo di svariati corsi di comunicazione assertiva che millantano magiche soluzioni a portata di mano una volta memorizzate mentre, tanto per cambiare, è di nuovo questione di consapevolezza e fiducia in sé stessi.
Ecco, l’ho fatto. Ho ceduto al fascino segreto della polemica. Voi non fatelo!