I pazienti zero che vivono in noi

Non mi è mai successo di pensare alla distanza che intercorre tra me e la persona davanti a me in coda al supermercato, tantomeno a quella che mi separa dall’ amica che incontro nel locale sotto casa.
Non è mai successo che le scuole rimanessero chiuse tre settimane. Non è davvero mai successo che tutti gli eventi venissero annullati, che amici e parenti all’estero non potessero tornare, che una regione intera diventasse inaccessibile.
Quello che non è mai successo prima definisce la straordinarietà di un evento, ne fa parlare.
A seconda dei casi diverte o preoccupa.
Scandisce il tempo, lo ritma e contestualizza la vita.
E’ stato l’anno del coronaVirus, diremo, in un tempo che ora sembra lontano, incerto e intensamente desiderato, quello in cui tutta questa straordinarietà diventerà un ricordo.
Le prime volte sono significative sempre, individuali e collettive che siano; quelle collettive ti danno la misura di qualcosa che sta sopra le nostre teste, relativizza tutto il resto, ci rende comunità nella sventura, o semplicemente nella novità.
Anche nella vita delle persone le cose mai successe prima scandiscono il senso della propria storia, definiscono un’origine, determinano comportamenti, orientano scelte, costruiscono credenze.
E così, pensando all’espressione paziente 0 e paziente 1, anch’essa new entry nel nostro modo di esprimerci e parlare mi sono ritrovata ad usarla come metafora della nostra vita interiore. Qual è il paziente 0 che vive dentro di noi? Quale il focolaio di quella paura, di quell’antipatia, di quel blocco?
Quello che per primo ha portato un virus nel nostro funzionamento, che poi ha cominciato a diffondersi creando un effetto a catena che ha contagiato aree anche molto lontane, arrivando talvolta a ordinanze ministeriali interiori che hanno impedito cose e imposto misure di sicurezza.
I nostri pazienti 0 raccontano chi siamo, come ci siamo organizzati intorno ad un’esperienza traumatica, quali contromisure abbiamo preso e come ne siamo usciti. Le indagini per andarne alla ricerca sono spesso quelle che accadono in una stanza di terapia perché permettono di ri-narrare la propria storia e la propria identità, liberarsi da fardelli apparentemente senza nome e origine.
II lavoro che si fa per andare a ritroso fino a quel punto può suscitare reazioni controverse. Proprio come quelle che sentiamo relativamente alla ricerca del paziente 0 del CoronaVirus. A cosa serve? Ha senso?
Trovare quel punto da cui tutto è partito, ricostruire la nostra storia è la cosa più importante che possiamo fare o una speculazione insensata?
Così come sta accadendo nella realtà di questi giorni è difficile prendere posizione. Il paziente che sta a monte del paziente 1 di Codogno serve a ricostruire la strada del contagio e isolarne cause e pericoli o è pia illusione perché ormai i buoi sono scappati ed è meglio concentrarsi sui pazienti 7373, 7374, 7375 (numeri aggiornati alle 18 dell’8 marzo) etc…
E tra quello zero e uno il passo è uno solo o c’è dentro un altro mondo di ramificazioni e collegamenti?
C’è del vero in entrambe le tesi.
Non ci si può occupare solo dell’inizio così come non possiamo negare l’innato bisogno e utilità di capire da dove tutto ha avuto origine.
Al momento ci fanno compagnia molti punti interrogativi, tante quante le incognite che accompagnano l’evolversi della situazione che stiamo vivendo, che avrebbe bisogno di un orizzonte di tempo impossibile da disegnare al momento.
Nonostante le incertezze, quella che resta certa è la necessità di curarci di tutti i pazienti, anche lo 0 che ha fatto partire tutto.
Fa parte di noi e ne usciamo solo aiutandoci. Una mano tesa verso l’esterno e una verso l’interno.
Per il momento senza contatto fisico ma con tutta l’umanità che serve per dare senso a qualcosa che al momento sembra appartenere più alla sfera dell’assurdo, quella in cui gravitano le cose mai successe prima.