Come un piatto rotto

19 Apr 20 | Cose mie, Meccanismi psicologici

I giorni dall’inizio del lockdown passano e nervosismo e stanchezza aumentano.
Lo percepisco in me, nella teoria di carte sovrapposte e sparpagliate sul tavolo, nella mancanza di argomenti nelle conversazioni telefoniche che, dopo settimane di confronti su luoghi e modalità degli approvvigionamenti, aneddoti da quarantena e aggiornamenti su serie viste e libri letti si concentrano sull’immaginare quello che sarà e si concludono quasi sempre con variazioni sul tema dell’eloquente “Speriamo”.
Lo percepisco nell’aumentare dell’informazione detrattiva e scettica, negli sguardi fugaci, nei commenti sonori alla domanda “Come va”: Eh, Mah, Mmmm.
Anche la vita onirica sta diventando piuttosto esplicita nel manifestare sentimenti di chiusura, voglia di evasione, personaggi in divisa che impediscono le più innocue attività.

Il pensiero positivo sta lasciando spazio ad un generico sfibramento e insofferenza.

I cori sui balconi si sono spenti come i proclami di beatificazione del personale sanitario, gli arcobaleni stanno sbiadendo e si smorzano gli entusiasmi dati dalle spunte su liste di improbabili e virtuose attività casalinghe; anche la passione per i numeri è svanita, se l’è portata via la scoperta che erano poco più che ipotesi.

Ieri mi si è rotto un piatto e, a quei 5 pezzi di ceramica bianca, ho reagito in modo inaspettato, affranto.

Ho provato un intenso desiderio di praticare quella tecnica giapponese che consiste nel ricomporre oggetti frantumati con filature d’oro e cimentarmi con il salvamento di un dozzinale piatto facilmente sostituibile che però non mi pareva tale in quel momento.
Il crac nel lavandino mi ha fatto sobbalzare e scoprire che, pur avendo mirabilmente salvato il piatto che avevo in mano, se n’era rotto un altro subito sotto.
Ho pensato che avrei davvero dovuto dedicare del tempo a re-incollare quei cocci; mi sarebbe servito ad accompagnare i sentimenti di malinconia e tristezza con cui mi ero sintonizzata, senza annegarli in una serie Tv, una telefonata o un’altra delle mille cose che si possono fare con uno smartphone in mano.

Se è vero che non è proficuo crogiolarsi nella tristezza, è pur vero che a far finta che non esista non ci si guadagna nulla.

E, estendendo la riflessione al di là della quarantena, penso sia frequente confondere la capacità di reagire con il comportarsi come se nulla fosse successo, l’aver superato una difficoltà con l’averla negata.

Non sempre lo facciamo coscientemente: si tratta di comprensibili meccanismi di fuga che scattano in automatico e che ci fanno spostare sguardo e cuore dal piatto rotto. Che rimane nel lavandino anche mentre tutte le altre stoviglie sono state lavate, sciacquate e messe via.
E il giorno dopo è ancora lì e dobbiamo fare attenzione a non tagliarci.
L’elogio della soluzione e il vademecum dei modi di reagire sono a portata di mano come il necrologio nel cassetto di una redazione, a scrittore ancora in vita. Mirabilmente composto per quanto riguarda la retrospettiva delle opere, ma senza quella profondità che è possibile solo quando è l’emozione della perdita a guidare la penna.
Così l’elogio della resilienza e dell’adattamento sono spesso soluzioni posticce, pronte per l’uso, ma senza l’apprendimento di chi nella difficoltà ci è sostato il tempo necessario.

D’altro canto come si fa a reagire se non si sa a cosa si reagisce?

Anticipando la ripresa ed estinguendo la crisi prima ancora di averla avvertita non sapremo nemmeno quali sono le ferite che dobbiamo disinfettare perché si formi la crosta.

La sorte naturale di una ferita è la guarigione, ma non se ci si comporta come se non ci fosse, allora continuerà a sanguinare o, peggio, si infetterà. Danneggiando anche altri organi sani. Quello che capita quando invece di dare nome alle cose e ai sentimenti reagiamo problematizzando altri ambiti di vita.

La ritualità legata alla morte serve a ricordarcelo. Non si può ripartire il giorno dopo: ci sono passaggi dolorosi, ma inevitabili che consentono e costringono a fermarsi e dedicarcisi completamente.

Uno degli aspetti tremendi di questa emergenza è proprio il fatto che si è portata via la possibilità di assistere e piangere i propri morti in un rito di passaggio. Occorre andare avanti, dare priorità alle misure di sicurezza, non c’è tempo per indugiare nel lutto.

Penso che la mancanza di un tempo dedicato al rito del commiato sarà un aspetto che, al pari di molti altri passati in secondo piano, avrà un prezzo e ce ne si dovrà occupare.

Sono comprensibili i motivi che portano alla confusione tra reazione e negazione.

Non è sempre facile passare dalla fase della tristezza. Quando la si descrive ha un perimetro finito, ma quando ci si è dentro ha un’estensione infinita. E’ la razionalità a dirci che passerà, le persone che ci sono care a ricordarcelo, ma non quello che sentiamo.

La negazione è un meccanismo potente che fa circumnavigare la sofferenza, distrae, fa rumore, impegna in altro, ma in realtà ha radici esili e equilibri precari, basta un piatto rotto a far cadere il castello di carte.

L’ombra fa parte della luce.

Se capita una cosa brutta e passiamo oltre scavalcandola, non smette di far male: ci si è “solo” privati della possibilità di fare del proprio dolore qualcosa di sensato e utile: reagire, proteggersi, allontanarsi, scegliere, ricordare, lasciar andare o ricomporre i cocci con cicatrici d’oro.