Altro che sacco di pulci

3 Feb 20 | Cose mie

Si parla parecchio di questa serie TV inglese intitolata Fleabag (che significa, per l’appunto, “Sacco di pulci”) e della sua autrice e protagonista Phoebe Waller-Bridge.

L’ho guardata, con gusto, e mi è venuta voglia di parlarne qui perché i temi di cui parla si prestano assai bene ad una riflessione su funzionamenti e disfunzionamenti psicologici. Le due stagioni sono diverse tra loro: la cifra stilistica è la stessa ma sono speculari per l’andamento e per i temi affrontati: nella prima, la vita della protagonista sta andando a rotoli e il punto di vista è iper-realista, per non dire disfattista, la visione sul mondo e sul futuro è piuttosto priva di attrattive fino ad un punto di svolta che apre a scenari nuovi che si sviluppano poi nella seconda serie, dove tornano possibili sentimenti positivi come amore e speranza. Fleabag parla di temi impegnativi in un modo divertente, dissacrante e molto coinvolgente perché la telecamera, un po’ come la quarta parete pirandelliana, è la direzione a cui la protagonista si rivolge in un dialogo che è contemporaneamente con sé stessa e con lo spettatore che ha, in questo modo, una prospettiva privilegiata sul suo mondo interiore. Racconta la vita di una trentatrenne londinese, ordinaria e molto assurda al tempo stesso. Questo personaggio (che rimane senza nome, motivo per cui Fleabag è anche il modo in cui ci si riferisce a lei) ha una sorella, molto diversa da lei, un padre timorato di far la cosa sbagliata, un lavoro che apparentemente non ama, un’amica sempre presente nei suoi pensieri, un fidanzato nevrotico che va e viene ed una serie di storie con amanti occasionali che ricerca, ma a cui non sembra particolarmente interessata, come in realtà a quasi niente.

Per quanto comico, scorre tutto un po’ incolore nella vita di Fleabag.

Le sue provocazioni taglienti celano un’inconsolabile disperazione che, quando si manifesta, spezza la risata e la fa virare in amarezza. Il motivo non si capisce subito; è collocato in un passato non troppo distante ed emerge dallo sfondo man mano che la storia procede. Si intuisce presto che l’ironico distacco con cui affronta ogni evento della sua vita è in realtà una modalità dietro cui Fleabag si nasconde per non crollare sotto il peso della perdita e del senso di colpa. Senso di colpa in virtù del quale si infligge continui auto-sabotaggi fatti dei comportamenti più svariati: scelta di partner che la usano come oggetto sessuale, boicottaggi nella gestione del suo bar, malesseri che butta addosso ad altri che, per reazione, la tengono a distanza, provocazioni che assomigliano più a maldestre richieste di aiuto che eccentricità caratteriali. Fa tutto questo perché non riesce ad elaborare il trauma del lutto per la perdita della sua amica, di cui si sente responsabile.

Fleabag racconta di come la sofferenza ti boicotti, impedendoti di andare avanti perché talvolta il fluire della vita rimane bloccato in un passato che non si riesce a lasciare andare via.

Ci si ritrova così in situazioni che lo rendono eternamente attuale nel duplice, paradossale, obiettivo di trovare una soluzione impossibile a qualcosa che è collocato nel passato e di auto-punirsi per uno sbaglio che non ci si riesce a perdonare. Ma oltre a parlare di genesi e disfunzionamento della coazione a ripetere, la storia suggerisce anche una strada possibile per uscirne. Una strada che ha le sembianze e la voce di un personaggio secondario che nasce insignificante, ma che evolve in modo inaspettato e che, con compassione, le ricorda ciò che già la sua amica le disse,

“People makes mistakes” – le persone commettono errori.

Una frase semplice ma che, per come si è sviluppata e avviluppata la storia fino a lì, detona come un’epifania. Non una frase fatta o una semplicistica assoluzione, ma un distillato di fatica e vita vissuta. La verità di uno che la vede e si vede in lei, nel suo puntare al ribasso, e guarda ai suoi errori senza minimizzarli, ma senza spaventarsi. E’ nello scambio con questo personaggio che Fleabag recupera un senso e un’idea di perdono che le permettono di pigiare il tasto play facendo sì che quel fotogramma incantato che va in loop da mesi nella sua testa, possa ripartire; non sparire del tutto, come se non fosse mai successo, ma tornare a far parte di una storia che scorre invece che condannata ad un’eterna ripetizione. Le persone commettono errori; ecco perché mettono le gomme al fondo delle matite. Per poter continuare a scrivere.