Abitare nell’incertezza.

19 Ott 20 | Attualità

Viviamo tempi duri e incerti.
Siamo tornati a scandire il tempo a suon di DPCM che dettano regole con l’obiettivo di contenere il contagio. Eppure i numeri crescono e i motivi per cui questo accade non sono chiari e univoci.
Crescono perché è l’effetto del costitutivo espandersi del virus e senza regole andrebbe anche peggio?
Crescono perché molti non rispettano le regole? Perché le regole non funzionano o perché funzionerebbero in teoria, ma sono applicate male? O perché avrebbero dovuto essercene di più e prima.

Non si sa.

E il vaccino?
Ci vuole un anno. Forse meno. In Russia l’hanno trovato. E’ già stato realizzato e testato, sono pronti stanziamenti per comprarne ingenti quantità. Ci sarà, ma non ora. Ci sarà, ma non per tutti.

Non si sa.

Questo è un tempo dalle molteplici verità.

Confuso, precario, incerto. Pieno di mancanze, colpevoli e complotti. Foriero di verità definitive, che durano poche ore.

Parlavo con mio fratello al telefono l’altro giorno e, a conclusione della consueta disamina e commento sulla situazione in essere, stavo cercando una frase per chiudere il discorso e passare ad altro. Sono abituata a chiudere con una frase positiva, del tipo, “Meno male che …” o “Speriamo che…” Mi sono accorta che ero a corto sia di Meno male che di ragionevoli Speriamo che. “Speriamo che passi in fretta” è ovvio, ma comincia a sembrare troppo irrealistico e illogico per essere formulato.
E così, dopo un po’ di balbettii ho effettivamente formulato “Non so più cosa sperare, non ne vedo la fine” e lui mi ha risposto “Finire, finirà. Di questo siamo sicuri.”
E mi sono sentita sollevata.

È molto fumoso come orizzonte, in termini di tempi, modi, esiti, ma è comunque un orizzonte che delimita una superficie finita all’interno di uno scenario infinito, il che rende più sopportabile la prospettiva o meglio, la sua assenza.

Penso sia avvenuto in parte per una fascinazione antica legata all’autorevolezza connaturata all’entità fratello maggiore. Ma non solo.

Per stare meglio serve un orizzonte di tempo, un dato certo che delimiti la sconfinatezza dell’ignoto, dello sconosciuto.

D’altro canto anche i nostri sensi ci hanno dotato dell’illusione dell’orizzonte. Una linea retta, assai rara in natura che delimita nei paesaggi privi di montagne la nostra visuale sul mondo e ce ne fa percepire una frazione ragionevole.
La mia amica Chiara, recentemente, per consolarmi del pessimo esito di un tentativo di acquerello mi ha detto “E’ che la vista è troppo ampia. Devi concentrarti su una parte”.

Funzioniamo meglio su superfici limitate. Qualsiasi difficoltà va frazionata in piccoli traguardi affinché l’incedere possa avere una direzione e si abbia la sensazione di andare da qualche parte.

La difficoltà di questi tempi sta inoltre nel non sapere se, a fronte degli sforzi fatti e delle regole emanate, il piede dopo poggerà su un terreno più solido o più sconnesso del precedente.

Si riesce a camminare su terreni instabili, se di passo in passo, si intravede la terra ferma, quella che non muove insieme a noi e su cui si può sostare il tempo necessario a riprendere le forze. Ma se quel terreno sconnesso non guarda ad un traguardo visibile, per quanto distante, manca il fiato.
La saturazione di pace nel sangue scende e l’affanno sale.

È una condizione, questa che stiamo vivendo, che allena la nostra capacità di stare senza sapere.

Stiamo prendendo famigliarità con quel “Del domani non v’è certezza”, che ci diciamo ma che conosciamo poco, a meno di tragici imprevisti che cambiano il corso della vita. Ci siamo così tanto disabituati dal doverlo rappresentare in film distopici o dell’orrore per esorcizzarne la paura.
Il Non lo so è una terra che si può abitare con agio per pochi minuti, fino al momento di cambiare discorso perché ciò che è sconosciuto è imprevedibile e l’imprevedibile rende difficile fare piani, ordinare la realtà, decidere una strategia, arginare l’angoscia.

Viviamo in botti di legno che il tempo e la natura rendono permeabili all’imprevisto.

Se c’è una cosa della retorica, già tramontata, del “Ne usciremo migliori” che penso resti in piedi è il vaccino all’illusione di poter vivere in botti di ferro.

Quello sì, ce lo stiamo somministrando tutti. Speriamo che ci torni utile anche per tutto ciò per cui non serve un DPCM.