10 motivi per non andare in psicoterapia

Considerazioni (semi)serie di una psicoterapeuta.
L’amica con il fidanzato eternamente sbagliato, quella mortificata da un capo despota che risucchia tutte le sue energie. L’amico apatico e insoddisfatto. La coppia di amici in crisi. Insicurezze paralizzanti, conflitti atavici con fratelli/sorelle/genitori, paure apparentemente immotivate, blocchi creativi.
Capita spesso, da psicologi (e non solo) di trovarsi a consigliare a qualcuno che sta vivendo alcune delle questioni di cui sopra, di affrontarle in un percorso di psicoterapia. Quando si tocca il tema affiorano sguardi stupiti e, quando non silenziosi e stupiti imbarazzi, effluvi di considerazioni profonde, confidenze, dubbi, domande esistenziali, fantasie e curiosità.
Pochi tra questi argomenti suscitano il mio sincero interesse quanto i motivi per NON andarci, in psicoterapia.
I motivi in questione si ripresentano con una certa ripetitività, tanto da avermi indotto a delineare alcune categorie che corrispondono ad obiettori tipo e mi sono divertita ad elencarli, obiettando a mia volta.
C’è stato un tempo in cui una risposta frequente di quello che definirò genericamente lo/la SVALUTANTE era un’affermazione che suonava più o meno così
“Preferisco parlare con un buon amico-mi conosce da quando son bambino e non mi costa nulla”.
Avere un caro amico a cui confidare difficoltà e paure, quello che ti conosce da una vita e ricorda meglio di te tutte le volte in cui dalla prima elementare a ieri ti sei trovato in situazioni analoghe è una fortuna; ti vuole bene e sta dalla tua parte. La psicoterapia, però non c’entra nulla con questo, nemmeno se l’amico è psicologo o incredibilmente saggio; questo perché pur ipotizzando che ti dia il migliore dei consigli, è la posizione di chi chiede il consiglio a non essere quella giusta. L’amicizia è una relazione che si basa (o dovrebbe basarsi) sulla reciprocità e quello che cerchiamo da un amico non è cambiare il nostro approccio alle cose quanto piuttosto sapere che nonostante tutto, andiamo bene così come siamo.
Quando scegliamo di parlare con uno specialista, siamo noi ad essere diversi, in partenza. L’appuntamento che abbiamo con lui/lei è un appuntamento che abbiamo con noi stessi. I soldi che spendiamo sono un impegno a far sì che quel tempo sia un investimento e definiscono un tipo di reciprocità diversa. Lo psicoterapeuta non ti aiuta perché un giorno tu aiuterai lui. Ti aiuta perché tu gli hai chiesto aiuto, insieme avete convenuto che c’è qualcosa che ti impedisce di essere totalmente realizzato come persona e perché di lavoro fa questo. È una relazione chiara e presuppone delle precise responsabilità, del paziente e del terapeuta.
Il secondo dei motivi per non andare in psicoterapia è quello teorizzato dallo PSICOLOGO MANCATO, quello che “non ho bisogno di andare dallo psicologo; io so già qual è il mio problema.”
Ogni volta che la conversazione arriva a questo punto visualizzo lo psicoterapeuta come un impiegato di qualche ufficio pubblico preposto alle etichette. Un imperturbabile esperto che distribuisce definizioni.
Le parole sono importanti. Definire le situazioni, soprattutto quelle problematiche, è spesso l’unico punto di partenza per affrontarle, ma non è, per l’appunto, che il primo passo. Il limite di questa visione della psicoterapia è che è improntata su di una relazione unidirezionale in cui uno espone il problema e l’altro lo diagnostica e lo categorizza. Uno fa una domanda e l’altro risponde. Se così fosse noi psicologi saremmo stati da un pezzo sostituiti da app capaci di individuare, tramite algoritmi, tipologie di malessere, casistiche di pazienti e soluzioni.
Per fortuna non funziona così. La bellezza e l’unicità di una relazione terapeutica è che prima che terapeutica, è una relazione, e come tale non è statica né unidirezionale. Al suo interno le definizioni e le descrizioni mutano in continuazione, circolano emozioni, avvengono incomprensioni e chiarimenti, si stabilisce un legame.
Lo psicologo sarà sempre meno esperto del suo paziente nel conoscere il suo problema, ma è la persona che è stata incaricata di farne, insieme a lui, qualcosa di diverso; migliore. Quel processo non può avvenire se non all’interno di uno scambio. Il punto non è conoscere il nome del problema, è affrontarlo.
L’obiezione classica “Andare da uno psicologo?! Non sono mica matto?” potrebbe sembrare superata, ma non è mai del tutto fuori moda.
Che è un po’ come dire, se ci vado mi arrendo definitivamente al fatto di avere un problema, mentre, prima di varcare la soglia dello studio di uno psicologo il problema è soggetto al mio esclusivo e aleatorio arbitrio. “Ho un problema, ma anche no”. “Sono normale io. Il mio collega, quello che si aggira arrapato tra la fotocopiatrice e la macchinetta del caffè a importunare le colleghe e fa collezione degli omini del subbuteo a 40 anni, lui si che dovrebbe andare da uno bravo.”
Siamo nell’area meglio nota come “Il primo passo per affrontare un problema è ammettere di averlo”. Ci sarà sempre uno più squinternato e bisognoso di noi. Questo purtroppo non c’entra nulla con il modo con cui decidiamo di affrontare e gestire la nostra vita. L’obiezione in questione mal si concilia con un augurio a “farcela” perché può generare un arroccamento sulle proprie posizioni di intensità ancora maggiore. “Non c’è nessun motivo per aver bisogno di un incoraggiamento. Sono sereno e consapevole. Grazie al cielo.”
Che poi, il fatto di avere o non avere un problema è, di per sé, un ottimo primo argomento di conversazione con cui confrontarsi con uno psicoterapeuta che generalmente, per i motivi di cui al punto precedente, non nutre una passione smodata per le etichette e quindi può aiutarvi a fare chiarezza su quanto effettivamente la questione che vi ha portato a cercarlo sia un problema e perché.
La tesi dell’ARRESO è “Cosa ci vado a fare? Son fatto così. Alla mia età mica cambio.”
Argomentazione che suona tanto come “Perché provarci e perdere, se non ci provo non posso nemmeno fallire”. Qui c’entra la fiducia. La fiducia in sé stessi e nel proprio futuro. E un po’ anche la propensione al cambiamento e alla fatica. Per quanto una situazione sia scomoda e deludente, la conosciamo già. Ci sentiamo a casa nostra. Le dinamiche sono note, nulla potrà veramente coglierci di sorpresa e poi la condizione di impotenza ha i suoi vantaggi. Finito lo sfogo si può continuare a fare tutto esattamente come prima.
“È una cosa importante e giusta. Nulla in contrario. Prima o poi ci andrò.”
Tra tutte, l’obiezione dell’ELUSIVO è la più raffinata perché schiva elegantemente la discussione. Di partenza l’obiettore vi dà ragione su tutta la linea e non c’è alcuna considerazione sull’utilità della psicoterapia che non lo trovi d’accordo. Il dibattito si svuota velocemente di senso perché è un po’ come fare il tifo per una squadra che non sta giocando alcuna partita. La squadra avversaria ha lasciato il campo. Partita vinta a tavolino per manifesta superiorità. Tutti a casa e si cambia argomento.
In teoria. Perché la resa apparente cela un rifiuto assai profondo. L’ipotesi non è presa seriamente in considerazione, rimane pura teoria. La vita vera, dove si continua a sbattere la testa sempre sullo stesso spigolo, è un’altra storia.
Dall’obiezione esistenziali si arrivano a quella terra-terra, gli step avanzati della problematizzazione, perché implicano un superamento almeno teorico di tutte le altre obiezioni per arrivare agli ostacoli di natura apparentemente pratica; quelle per cui, le belle parole non servono più, servono soluzioni.
Il PRAGMATICO, può controbattere, ad esempio con “Andrei ma non so da chi”.
Ovviamente l’obiettore in questione, se pone il problema ad uno del mestiere, casca male perché poche cose intrigano noi psicoterapeuti quanto un invio ben fatto al collega giusto. Quindi se volete continuare a NON andare in psicoterapia premuratevi che l’obiezione in oggetto non sia rivolta al vostro amico psicologo.
Oppure “Ci andrei ma COSTA TROPPO.”
Il costo è un tema non secondario, ma ci sono alcune considerazioni da fare e miti da sfatare. Parlare di soldi spesso significa parlare di priorità e, la maggior parte delle volte l’obiezione, correttamente formulata è “Ci andrei, ma per il momento preferisco spendere i miei soldi diversamente.”. Si tratta di scelte che diventano discutibili nel momento in cui alla base del “Ci andrei” c’è una questione ingombrante, ciclica e invalidante. A quel punto probabilmente conviene fare un primo passo nella direzione del cambiamento e sovvertire l’ordine costituito rivedendo le priorità.
Se invece la questione è più essenziale, allora occorre valutare altre ipotesi a partire dal fatto di chiedere un colloquio e dichiarare apertamente le proprie disponibilità e limiti. Ci sono più professionisti di quanti si crede disposti, di fronte ad un paziente seriamente motivato, a abbassare le tariffe, oppure c’è il servizio pubblico o servizi tarati su problematiche specifiche. Come sempre, i soldi facilitano la vita, ma difficilmente la risolvono come invece può fare una seria determinazione.
Per il “Ci andrei ma non ho tempo”, la terza delle questioni “pratiche” valgono le stesse argomentazioni del punto precedente, moltiplicate per due.
Alla lista dei motivi va aggiunto infine quello, spesso variegato e polimorfo, messo in campo dall’obiettore ALTERNATIVO che allo psicologo preferisce, lo YOGA, la NATUROPATIA, la MEDICINA OLISTICA, l’OSTEOPATIA, la CRISTALLOTERAPIA, i FIORI di Bach, il massaggio Shiatsu, la danza CONTACT, il COACHING, etc..etc…
Una o più di queste discipline abbinate o esperimenti con tutte, a rotazione.
Il benessere è un discorso complesso e ampio. La psicoterapia ha in comune con queste discipline il fatto che lavora per promuoverlo, ma è diversa tanto quanto lo è una dieta da un intervento chirurgico se hai un problema di salute. Entrambi possono contribuire a risolvere un problema ma non sono la stessa cosa, non agiscono sugli stessi funzionamenti, non portano a identici risultati e, quasi mai, sono interscambiabili. E’ la domanda a monte, quella che nasce dal limite, che porta con sé gran parte della risposta rispetto a ciò di cui veramente abbiamo bisogno.
L’ultimo motivo per non sedersi di fronte a quella figura mitologica costituita da una sconosciuto apparentemente inoffensivo che di professione fa lo psicoterapeuta, il motivo che più scuote e interroga gli animi, per lo meno il mio, è “Ci andrei ma ho paura.”
Se volete zittire l’amico psicoterapeuta, rispondete così. E’ una risposta diretta e disarmante.
E’ come dire vorrei cambiare ma l’equilibrio che ho, per quanto limitante, è conosciuto, mentre quello che dovrei arrivare ad avere se mi mettessi profondamente in discussione, non lo conosco ancora e nel tempo che mi serve per raggiungerlo non so bene come potrei stare e non sono nemmeno certo di trovarlo o che mi piaccia.
Di fronte a tale acuminata e lucida introspezione l’amica psicoterapeuta normalmente tace e si limita ad augurarsi che l’ONESTO obiettore trovi il coraggio di saltare dal trampolino armato di quella fiducia che serve per fare il primo passo. Fiducia in se stessi prima ancora che nella psicoterapia.
Mi piace pensare che, superate tutte le obiezioni, poi arriva il giorno in cui all’obiettore non va di chiamare un amico, non si sente matto ma pensa di avere un problema, di cui si è davvero stufato, si è persuaso anzi, quasi ne ha bisogno, di sentire che qualcosa ancora la può cambiare, ha trovato il nome giusto, si è convinto della spesa e compone il numero.
Tu-tu-tu…
“Pronto?”